A cura di Emanuela Paone**, Psicologa e Psicoterapeuta, “Sapienza” Università di Roma, ICOT Polo Pontino (LT)
“Zucchero! Perché le campagne contro l’abuso sono spesso inefficaci?”
Una lettera inviata da alcuni psicologi australiani alla prestigiosa rivista The Lancet Diabetes and Endocrinology, pubblicata il 17 giugno 2020 ha sottolineato e analizzato come mai le campagne per sensibilizzare sul diabete tipo 2 risultino essere, talvolta, addirittura dannose sugli esiti della causa stessa che promuovono, in quanto alimentano indirettamente lo stigma crescente verso il diabete, così come avviene per l’obesità. Una discriminazione di cui si parla troppo poco e completamente sottostimata. Schabert J e collaboratori, psicologi specialisti nella ricerca e nella cura del diabete, hanno ideato una flowchart, in cui si evidenziano i possibili fattori, individuali e sociali, che determinano e condizionano lo stigma verso il malato di diabete, utile per individuare possibili strategie per scardinarlo.
Numerose campagne di comunicazione nate per sensibilizzare contro l’insorgenza del diabete veicolano il semplice messaggio che il consumo eccessivo ed errato di zucchero è causa del diabete e delle sue complicanze.
È facile intuire come questo tipo di messaggi faccia leva sulla paura delle persone, paura della malattia e delle possibili conseguenze.
Il presupposto di base qual è? Si dà per scontato che le persone, nel momento in cui si confrontano emotivamente con gli effetti negativi che fanno seguito al loro comportamento metteranno in atto una correzione della propria condotta. Ma è davvero così?
In realtà, questo presupposto tiene conto della motivazione conscia del soggetto, ma ignora del tutto le reali risorse individuali e le possibilità di ciascuna persona relative al mettere in atto tale correzione comportamentale. Quando queste mancano o non sono percepite, è facile che le persone reagiscano con un meccanismo controproducente di autodifesa, comunque di totale chiusura.
Appelli o messaggi semplicistici che facciano perno solo sulla paura delle conseguenze, non sono efficaci nel promuovere azioni preventive sulla propria salute a meno che non alimentino anche aspetti di autostima, consapevolezza e fiducia nelle proprie capacità interiori riguardanti l’affrontare un rischio, il cambiare un comportamento scorretto in uno più virtuoso e più salutare o nell’affinare strategie sfruttando le proprie capacità interiori, di cui si è consapevoli.
Inoltre, in alcuni ambienti o strati sociali, questi appelli potrebbero addirittura favorire lo stigma e il disagio verso le persone con diabete o nelle persone stesse che soffrono di questa malattia cronica o anche intaccare l’immagine del diabete quale causa sociale lodevole per cui creare una campagna di sensibilizzazione mirata.
Di conseguenza, messaggi troppo semplicistici che giochino sulla paura e la preoccupazione non solo risultano inutili ma addirittura possono diventare dannosi.
Lo stigma verso il diabete
“Il diabete ha un problema di immagine” scrivono i Colleghi psicologi australiani (Speight J, et al, 2020) sottolineando come nella loro realtà, ma anche in quella internazionale, il diabete tipo 2 e l’obesità sono in netta crescita. Speight J et al riferiscono di osservare come piuttosto che prendere in considerazione fattori ambientali, socio-culturali e genetici coinvolti nell’insorgenza della malattia, si evinca il persistere di un radicato pregiudizio sociale nel considerare il diabete – così come l’obesità – una conseguenza dell’eccesso di cibo, della pigrizia e della mancanza di volontà di cui è responsabile esclusivamente il singolo soggetto che ne soffre.
Le persone con diabete spesso lamentano uno stigma sociale nei confronti della malattia. In Australia, si stima ad esempio che il 25-67% degli Australiani con diabete siano bullizzati e biasimati dai loro stessi familiari ma anche dalla comunità, dai mass media e perfino dai professionisti della salute che dovrebbero prendersene cura.
Questi pregiudizi intaccano ovviamente la qualità di vita dei pazienti provocando frustazione, vergogna, sensazione di essere sempre inadeguati e “diversi” e interferiscono anche sulla qualità dell’autogestione nella cura della malattia diabetica. Questi aspetti incidono anche negativamente sul supporto socio-economico alla ricerca e alla cura del diabete e delle sue complicanze: il pensiero ricorrente che aleggia è “perché i contribuenti o i soldi dalle raccolte fondi dovrebbero essere sprecati per persone che hanno il diabete?” dando per scontato che sia conseguente alla scarsa cura di sé.
Nel 2017, John Michael Mulvaney, Capo di gabinetto della Casa Bianca ad interim e Direttore dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio sotto l’amministrazione Trump ha emanato un decreto particolarmente severo che limitava il finanziamento per il diabete sostenendo che “di denaro ne abbiamo in abbondanza per fornire una rete di sostegno e sicurezza per chi soffre o soffrirà di cancro… ma non siamo tenuti a prenderci cura di una persona che si siede a casa, mangia male e si fa venire il diabete” [alludendo ovviamente al diabete tipo 2; come noto il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune].
Questa visione stigmatizzante si perpetua nonostante sia più che noto come molti tumori condividano gli stessi fattori di rischio del diabete di tipo 2, e altrettanto noto e documentato che il rischio e la gestione del diabete di tipo 2 siano legati a fattori genetici, etnici, all’invecchiamento e a un ambiente sempre più obesiogeno (tanto da coniare il termine diabesità, diabete associato a obesità, dal parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, WHO), in sintesi – quindi – il diabete di tipo 2 non può essere considerato “solo una questione di responsabilità personale”.
Leggendo la letteratura e ascoltando molti pazienti, posso affermare come siano molte le persone con diabete con o senza obesità che ogni giorno testimoniano esperienze di stigma verso la loro malattia, che può essere sia interiore (sentirsi giudicati per la propria condizione di malattia) sia esteriore(essere presi di mira e/o discriminati in quanto malati di diabete).
I pazienti con diabete tipo 1, che sono insulino-dipendenti, riportano episodi di stigma rivolti proprio alla terapia ormonale, con conseguente imbarazzo nel somministrarsi l’insulina in pubblico, per: “… quel sentirsi in obbligo di dare spiegazioni per la loro condizione…”, “… per quella sensazione di essere giudicati per l’uso di una siringa/ago che vengono associate a malattie gravi/terminali o all’uso illecito di droghe...”
Anche le percezioni/esperienze di stigma nell’ambito familiare di pazienti con diabete tipo 2 sono frequentemente e associate a tentativi di nascondere la malattia, per es. in ambito lavorativo, disagio e risentimento per l’autogestione della cura, in grado di influenzare fortemente l’adesione alla terapia.
La discriminazione è una sfida quotidiana
Sfortunatamente questi episodi riflettono un fenomeno molto più diffuso di quanto si creda – la discriminazione è una sfida quotidiana per chi soffre di diabete.
Un’indagine condotta dall’Associazione inglese Diabetes UK riporta che 1 adulto su 6 con diabete è discriminato dai propri colleghi in ambito lavorativo e più di un terzo dichiara di avere avuto difficoltà sul lavoro proprio a causa del diabete.
Un quarto di essi vorrebbe una maggiore flessibilità con il rispetto delle pause per poter misurare la glicemia e assumere i farmaci; alcuni intervistati hanno riferito di non aver detto al loro datore di lavoro di avere il diabete.
La discriminazione al lavoro o nella vita sociale è solo la punta dell’iceberg dello stigma vissuto dalle persone con diabete. Chi non ha il diabete, in genere, non lo percepisce come una malattia stigmatizzata ma chi ce l’ha afferma decisamente il contrario e lo sperimenta quasi ogni giorno. Qualche esempio?
- Chi prende insulina si può sentire stigmatizzato, scrutato, additato per l’associazione delle iniezioni all’uso illecito di droghe;
- gli effetti dell’ipoglicemia possono essere erroneamente scambiati per una clamorosa bronza da chi non conosce il diabete, o per malattia mentale o epilessia, altre condizioni su cui pesa lo stigma sociale.
- Ancora, la frequente associazione del diabete tipo 2 con l’obesità (“diabesità”) – e di entrambe con uno stile alimentare scorretto e un comportamento sedentario può certamente contribuire allo stigma verso la persona con diabesità, ritenendola l’unica responsabile del propria condizione piuttosto che tener conto della conseguenza di determinanti ambientali, psicologici e biologici in complessa relazione tra loro.
- Le persone con diabete di tipo 1 possono sentirsi a disagio anche per la continua confusione che viene fatta (anche tra molti medici) tra la loro malattia e il diabete di tipo 2 con cui in realtà condividono solo il nome. I due tipi di diabete, infatti, hanno esordi, manifestazioni, terapie diverse.
I medici e il personale sanitario hanno un ruolo cruciale, il modo con cui comunicano e dialogano con i propri pazienti, le parole che scelgono possono rinforzare o minimizzare lo stigma sperimentato da chi soffre di diabete e obesità.
Un diagramma per identificare lo stigma verso il diabete
Schabert J e coll, psicologi australiani che da anni si occupano di stigma verso il diabete e altre malattie croniche, tra le quali l’obesità – hanno elaborato un interessante e utile diagramma per descrivere meglio le cause, le caratteristiche e le conseguenze dello stigma diabete-specifico e identificare le potenziali strategie per mitigarlo e possibilmente anche scardinarlo. Questa mappa rappresenta uno strumento utile anche per la persona che soffre di diabete per visualizzare e riconoscere in modo schematico gli elementi personali e sociali che caratterizzano la discriminazione che si associa e fa seguito allo stato di malattia. A te è mai capitato? Come hai reagito? Quali sensazioni/emozioni ti ha provocato? Come hai elaborato questi episodi? Se ti fa piacere, scrivimi in proposito.
UN DIAGRAMMA PER CAPIRE LO STIGMA CORRELATO AL DIABETE
Scarica e ingrandisci il diagramma, in italiano »
References
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** La Dr.ssa Emanuela Paone è Psicologo Clinico e Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, specialista in Disturbi del Comportamento Alimentare, Sovrappeso e Obesità e malattie associate.
È responsabile dell’ area psicologica e psicoterapeutica del team multidisciplinare per il trattamento dell’obesità del Rome Obesity Center, presso il Poliambulatorio S. Anna di Pomezia (RM).
In tale ambulatorio vengono accolte persone che chiedono aiuto per i problemi del peso, ma anche per essere supportate in un valido percorso di cura in assetto multidisciplinare. Effettua incontri psicologico-clinici individuali e di gruppo, con adulti e adolescenti; vengono effettuate valutazioni psicodiagnostiche pre-bariatriche e di inquadramento per il futuro ipotetico trattamento. Viene garantito il lavoro psicologico e psicoterapeutico durante tutte le fasi del percorso di cura, anche per quanti si sono già operati ma necessitano di una rivalutazione del loro andamento, da tempo abbandonato, e/o di un sostegno psicologico. Il lavoro prevede anche un approccio mirato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, Ansia e Depressione, sia a livello psicologico clinico che psicoterapeutico.
La d.ssa Paone è psicologa psicoterapeuta referente dell’ambulatorio Psicologico Clinico presso la UOC di Chirurgia Generale Bariatric Center of Exellence for Obesity and Metabolic Surgery IFSO UE – “Sapienza” Università di Roma – Polo Pontino, ICOT (LT) Resp. Prof. G. Silecchia.
E’ Docente a contratto, presso l’Università di Roma “Tor Vergata” e Università di Roma “Campus Biomedico” nel Master II livello in: “Psicobiologia della nutrizione e del comportamento alimentare”.
Partecipa attivamente a progetti, congressi e iniziative di ricerca scientifica; è autrice e co-autrice di numerosi lavori scientifici.