Lo ammetto, parlare di T’Ai Chi Ch’Uan non è facile, poco esaustivo e, sovente, non ne spiega nulla o poco. Quando poi si cerca di collegare il benessere psicofisico che questa antica saggezza cinese porta a conseguire, beh, è molto probabile che si possa passare per persone invasate, credulone etc.
Ma io, che non nutro alcuna presunzione di assurgere a siffatti titoli onorifici, oggi sono pronto a parlarvi di un’esperienza che ho maturato alcuni mesi orsono e che lascio a voi giudicare.
Undici mesi addietro dal momento in cui sto scrivendo, sono stato colpito da un I.M.A. un terribile Infarto del Miocardio Acuto. Devastante, destabilizzante che ha lasciato nelle parti più intime della mia coscienza un segno indelebile, violento e che, ogni volta che vi torno con il pensiero, mi rendo conto di come la vita da quei giorni non sia più la stessa. Ma scattano altre sfide…. fino all’idea, diventata poi realtà di fare un Pellegrinaggio fino a Santiago de Compostela. Ma andiamo con ordine.
Tutto accadde quasi per caso una mattina di ottobre 2018, verso le 10:00 di un giorno qualunque. Un dolore lancinante nel centro della schiena che si propagava per la parte posteriore delle braccia creando un tremito violento.
Non solo. Avverto una sensazione strana: come se dai palmi delle mani mi sprizzasse una fiamma incolore verso l’esterno: il mio Chi stava uscendo irrimediabilmente dal corpo energetico. La fine di tutto.
Quando si parla di Chi, tra chi pratica il T’Ai Chi Ch’Uan, molti medici occidentali storcono il naso. Per molti (per fortuna non tantissimi”) parlare di energia o meglio, di “energie”, è come parlare di un qualcosa di astratto, inesistente, “indimostrabile” ecc.
Io, che non sono né specialista, tanto meno voglio insegnare nulla ad alcuno, pongo loro un piccolo esempio tanto caro alla cultura orientale: l’aria che respiriamo non si vede ma esiste ugualmente… Questa affermazione non dimostra alcunché ma è bello pensare a qualcosa che pur non vedendosi esiste, come l’anima o l’animus…
Il Chi dicevamo, veniva avvertito come una fiamma che sgorgava violenta dai palmi delle mani. Per quanto lo stato di coscienza si stava affievolendo, la mia capacità di analisi aveva percepito la gravità dello stato in essere ed è proprio alla circostanza fortuita della presenza di mia moglie in casa che è stata sufficiente ad allertare il 112 e avviare la procedura di soccorso.
In meno di otto – dieci minuti, un’unità di soccorso avanzato giungeva al mio capezzale mentre ormai lo stato di coscienza si era quasi completamente annullato.
Sono bastati pochi minuti, una veloce inoculazione in vena di una sostanza, il trasporto all’ospedale cittadino e, direttamente nella struttura di emodinamica mi hanno salvano la vita. Nel giro di meno di cinquanta minuti sono passato dalla fine della mia esistenza ad avere qualche chance di farcela.
Ma non tutto finisce così bene e fortunatamente. Nelle successive trentasei-quarantotto ore trascorse nel reparto di terapia intensiva si sono giocate tutte le mie carte pro-vita.
Ce l’ho fatta, grazie a Ornella, mia moglie, ai soccorsi velocissimi e agli “angeli” del reparto di emodinamica di un ospedale pubblico. Si potrebbe dire “…e tutto è bene quel che finisce bene…”.
Ma non è così. Tutta una brutta vicenda, una storia di dolore, sofferenza e paura non si conclude nel momento in cui esci dalla terapia intensiva, ti staccano cavi, tubi e tubetti, i medici ti visitano, le infermiere di somministrano terapie e vedi che da una finestra di un ospedale il cielo è ancora blu.
Quando ti comunicano che dal reparto cardiologia ti dimettono, incomincia il vero dramma, la paura di essere solo con te stesso a dover guardare in faccia la vita, a riprenderti quanto credevi la buona sorte ti avesse abbandonato. In quei momenti e quelli successivi ti aggrappi a tutto, ai farmaci, a ciò che senti dentro di te dalle più piccole sensazioni passando per quello che “credi di avvertire”, per quello che leggi a profusione, per tutte le paure che da quel momento in poi ti attanagliano alla gola e ti ricordano che quel maledetto grumo di sangue, un piccolissimo trombo, che ha occluso le tue arterie coronarie, quelle che nutrono il cuore, è solo un’anticipazione di quello che prima o poi accadrà nuovamente.
Definitivamente. A quel punto analizzi ciò che sei stato, come hai vissuto, come ti sei alimentato, cosa, quanto e come l’ha fatto e ti stupisci che con un colesterolo totale di 226 non eri certo un candidato a un infarto.
Ma è accaduto. Allora vai a rileggere la tua storia legata al diabete e ti rammenti che comunque non eri né sei diabetico ma che i tuoi valori sono entro un range di “quasi” normalità.
Cerchi le cause del tuo malessere nell’alimentazione e ti ridici che non hai una alimentazione scorretta, o almeno, non completamente.
Poi ti domandi perché sia capitato a te che sei una persona allenata e attiva. Perché, perché, perché?
Ma non sai come risponderti: sei un paziente, nulla più.
Forse hai avuto solo sfortuna prima, una grandissima fortuna dopo.
Ma, comunque, sei lì solo con il tuo dramma, le tue paure, i tuoi dubbi.
Solo e basta. Solo con te stesso.
A nulla servono le amorevoli cure di chi ti è vicino, degli amici e le rassicuranti parole di medici e infermieri. Loro non hanno avuto ciò che ti è toccato.
Sei solo, tu e il tuo ex-infarto. Con quei quesiti che ti portano ad ascoltare ogni piccolo sussulto, ogni battito anomalo del tuo cuore, ogni bu-bu che salta fuori nuovo.
Insomma, fisicamente si guarisce ma nel nostro intimo cosa accade?
Hai la certezza di una cosa soltanto, che si muore. Ci sei andato vicino, vicinissimo ma, per fortuna, sei ancora di qui della barriera, di quel confine che separa l’essere e il non essere (questo è il dilemma, si domandava Amleto…).
Pastiglie mattino, pranzo e cena. Due stent medicati nelle coronarie per ricordarti che sei bionico e che grazie alla sanità italiana (cui dovremmo essere grati e maggiormente rispettosi…) sei ancora una storia di vita.
Ma sei ancora solo con le tue paure, l’ansia di chi ce l’ha fatta anche solo momentaneamente, eppoi cosa sarà il domani più remoto? Quando l’evento che ieri è stato battuto tornerà a colpire? Quando?
Questo è il vivere dopo un evento così devastante non solo nel fisico.
Ma è anche una rinascita. Una prova che ti viene fornita per comprendere chi sei, dove vai e dove andrai.
Una prova difficile da vivere, ma il tempo passa e il giorno in cui le terapie saranno sospese perché sei “guarito”, ridato alla vita, si avvicina sempre più ed è anche il giorno fatidico in cui tu temi di restare solo con la tua maledetta storia.
A questo punto tutto dipende da te. Tu sei il vero ed unico protagonista di quanto è accaduto e di quanto accadrà.
Gli altri sono solo spettatori del tuo vivere, del tuo dramma che non puoi confessare ad altri che a te.
E con se stessi non si bara, non ci si può contare balle perché conosciamo verità e risposte e c’è poco da fare.
Per giorni rimani lì a guardare lo specchio che riflette la tua immagine; per mesi resti come nel limbo e ti crogioli nell’osservare, nel compiangerti, “proprio a me?…”. Poi arriva il momento di saltare dal nido come ogni piccolo passerotto.
Non sai se spiegando le ali volerai oppure uno schianto concluderà la tua vita.
Ma, comunque, vale la pena tentare. E così è stato.
Tre mesi dopo il terribile evento sono andato in un centro di medicina sportiva con la mia cartella sanitaria piena di referti, esami, prescrizioni per essere sottoposto a visita.
Sai bene che le tue possibilità sono limitate ma parli francamente ai medici che ti “osservano” e quando ti dicono “ok, ma a queste precise indicazioni – condizioni, può riprendere…”, ti sembra di sognare, tocchi il cielo con un dito. Sei in volo.
Ma è quando rientri in palestra che il vero esame si sostiene, la prova del nove.
Hai un cardiofrequenzimetro professionale al polso che monitora i tuoi battiti cardiaci, sai che non puoi andare oltre a un certo limite, lo osservi quasi timoroso.
Inizia la lezione, sei sotto gli occhi di tutti, il maestro, i compagni di studio, le tue paure.
Con molta cautela inizi gli esercizi del Baduanjin (gli otto pezzi di broccato), la ginnastica preparatoria propedeutica agli esercizi di Qi Gong e alla forma T’Ai Chi Ch’Uan e allo Shaolin Ch’Uan.
Reggi, non sei malaccio. Manca un po’ il fiato, è normale, ma ce la stai facendo.
Prima timoroso poi sempre più sicuro di te stesso, sempre più “carico”.
Quando torni a casa lo specchio rifrange una nuova immagine di te stesso.
Ti accorgi che parte della stima di te stesso svanita è tornata a renderti giustizia, sei un uomo rinato.
Ma non basta.
Nel corso dei giorni, settimane, mesi, prendi più confidenza con te stesso. Il tuo organismo è ripartito. Lentamente, ma in modo progressivo. La vita ti sorride.
Ma il demone è sempre lì presente, ti punzecchia, ti rammenta che quando meno te lo aspetterai, quando ti sentirai sicuro e fuori da ogni pericolo, lui ti colpirà nuovamente e più forte. A fondo.
S’insinua l’idea del Pellegrinaggio a Santiago
Ed è quando un amico, in ricordo dei vecchi tempi ti narra del suo Pellegrinaggio a Santiago de Compostela, di quei 972 km a piedi sul cammino francese da Saint Jean Pied Port a Santiago e Finisterra, che scatta la sfida al demone che alberga in te: e per quel motivo non posso farlo anch’io?
Nasce così una sfida a se stessi, a Te stesso.
Il tuo cervello parte a mille, incominci a leggere, documentarti, cercare, approfondire, ascoltare altre esperienze e scopri che è il messaggio che dal profondo sgorga come una sorgente di nuova vita.
Nel breve quattro mesi, da aprile ad luglio, incominci ad allenarti sempre più intensamente. Prima tre chilometri a passo veloce, poi cinque, poi otto poi dieci.
Il fiato regge, la fatica si sopporta e i battiti cardio sono nella norma.
“Allora posso provarci”.
Incominci a documentarti nella tecnica, su come affrontare piaghe, vesciche e tutto il resto.
Ora sai quasi tutto. Manca solo una cosa: la partenza, il “Go”.
Hai amici che ti dicono “è pericoloso nelle tue condizioni”, altri “fallo!”.
Allora getti la monetina e vai dal tuo medico che, dopo averti ascoltato ben bene, ti dice che puoi farlo e ti consiglia di usare la dovuta cautela, ma puoi…
Il 22 agosto 2018 salgo sul bus che porta al terminal 2 di Milano Malpensa e parto.
Due ore di volo e giungo a Oporto (Portogallo) da dove inizia il percorso lungo la via portoghese che costeggia l’Oceano Atlantico, la Senda Litoral: circa 290 km.
Non vi nascondo la paura che ho vissuto nei primi passi di questa avventura ma, man mano che procedevo, chilometro dopo chilometro, la sicurezza aumentava e i paesaggi che ho nella nostra memoria, il blu dell’oceano, le rondini che mi hanno accompagnato fino a Santiago, la gente che ho conosciuto, dai giovani di tutto il mondo alla vecchina che offrendomi la frutta mi augurava “Buen Camino…” mi hanno permesso di incidere dentro di me non il tenue ricordo di una bella avventura ma il significante di aver accettato una sfida vincente.
Non lo nego: quando sono arrivato innanzi alla cattedrale di Santiago alle ore 9:32 di domenica 1 settembre 2018 malgrado i miei sessantacinque anni ho percepito lacrime calde scendere copiose sul mio volto. Un pianto liberatorio.
Ogni mattina, prima di avviarci ho sempre praticato i fedeli esercizi di Baduanjin e Stretching per prepararmi ai chilometri che avrei affrontato (tratte da 16-20 km fino ai 35-37 km al giorno tra i monti e lungo l’oceano…).
Al nostro rientro abbiamo controllato Colesterolo e Glicemia: da non crederci; il primo 135 e la seconda 93. Camminare, nutrirsi bene fanno la differenza…
Alla sera, prima con una certa “timidezza”, cercavo un angolo tranquillo e praticavo la basi del T’Ai Chi Ch’Uan, poi man mano che il tempo trascorreva ho avuto il piacere e l’onore di praticarlo con tantissimi amici: spagnoli, cechi, slovacchi, israeliani, australiani, inglesi, polacchi, ecc.
Insomma, sono arrivato innanzi alla Cattedrale di Santiago de Compostela solo come ero partito, ma libero dalle mie paure, dalle mie ansie avendo scoperto che dentro di noi ci sono tutte le risposte a quelle domande che non sempre abbiamo il coraggio di darci.
Il T’Ai Chi Ch’Uan, che come già vi ho raccontato pratico ormai da anni, con la sua sinuosità, il suoi movimenti lenti, il suo respiro lungo e in sintonia, mi ha sicuramente aiutato molto in questo cammino di cui è difficile trasmettere intensità e senso, sentimento.
Di certo lo benedico perché mentre lo praticavo solitario lungo il blu dell’Oceano Atlantico, ho compreso come quell’immensa massa di acqua blu sia il nostro più intimo e profondo recesso umano. Il nostro mondo.
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Nello Fusaro