Roberto Lambertini nasce a Bologna il 4 settembre 1961 e già all’inizio della primavera del 1963, a neanche due anni, comincia a non sentirsi bene: perde peso senza motivo, ha sempre sete, fa tanta pipì, mangia a fatica ma dovrà aspettare molte diagnosi sbagliate prima che il medico faccia eseguire degli esami del sangue, e faccia diagnosi di una forma grave di diabete, nel maggio del 1963. Da allora, la vita non ha regalato nulla a Roberto ma lui non ha mai perso la speranza, con il suo guizzo negli occhi e la grande ironia, continuando a cercare e a ricercare per conoscere profondamente la sua malattia e farla conoscere agli altri, perché un giorno nessun bambino debba provare ciò che è capitato a lui. “Guardiamo avanti… c’è tanto da fare”.
“A Bologna è comodo avere poteri speciali…” recita una canzone
Certo ci vogliono, essendo in una città che offre tante possibilità, occorre saperle cogliere e farle crescere, come nel caso delle idee: una città universitaria millenaria dà l’opportunità di fare cose e percorsi innovativi in ogni campo.
2 maggio 1963, neanche due anni, un esordio precocissimo del diabete tipo 1…
A dire la verità l’esordio fu ancora prima, risale al febbraio dello stesso anno e cominciò con un errore diagnostico del mio medico curante dell’epoca: pensò si trattasse di un’ intossicazione alimentare, problemi al fegato, ma in realtà non fu così. I miei genitori dopo una settimana di aggravamento delle condizioni mi portarono al pronto soccorso pediatrico dell’ospedale Gozzadini all’interno del Policlinico di Sant’Orsola in Bologna, dove rimasi in coma in terapia intensiva per circa due mesi. L’allora primario della pediatria endocrinologica, il prof. Emanuele Cacciari mi soprannominò “il reuccio del Gozzadini” in quanto ero il primo fanciullo di quella età con diagnosi di diabete tipo 1; all’epoca a Bologna non c’erano stati precedenti. P.S.: Reuccio poiché negli anni 60 un pop star della musica italiana – Claudio Villa – veniva soprannominato con quel vezzeggiativo.
Come hanno reagito i tuoi genitori?
Fu un dramma! Principalmente per due ordini di motivi: i miei genitori erano di basso livello socio-culturale ed economico: mio padre faceva il muratore e mia madre la domestica. All’epoca, il diabete era considerato una malattia da ”ricchi”, ovvero da chi si poteva permettere di mangiare a iosa. E cosa ancora più importante non c’erano informazioni e supporto per loro. Quindi si andava alla cieca.
A quei tempi che cosa significava avere il diabete tipo 1?
Beh, dal punto di vista pratico la cosa era molto semplice: facevo un’iniezione sola d’insulina al giorno (siringa di vetro e ago che andavano sterilizzati ogni volta prima della puntura con la bollitura), quella che oggi corrisponderebbe a una premiscelata e copriva circa 12 ore. Non c’era alcun monitoraggio della glicemia a casa.
In pratica dall’esordio della malattia fino al 1970, ho trascorso complessivamente 2 anni 6 mesi e 22 giorni ricoverato in ospedale per via delle frequenti crisi di ipoglicemia e iperglicemia con chetoacidosi. E in ospedale, l’unico modo all’epoca per controllare i livelli della glicemia era di subire un prelievo di sangue dal braccio anche 4 volte al giorno, con aghi messi in vena grossi come chiodi per essere chiaro e senza anestesia!
Quali ricordi hai dell’adolescenza con il diabete?
L’adolescenza coincise con la prima volta in cui decisi di rompere la bolla protettiva materna: fino a quindici anni faceva lei le iniezioni di insulina. Senza assistenza di alcuno, cominciai a farmele da solo anche perché volevo essere autonomo, ma a parte questo la mia condizione non era cambiata per niente. A 14 anni passai dalla diabetologia pediatrica a quella degli adulti, ma il miglioramento nel trattamento e il supporto non c’erano e non ci sarebbero stati neanche negli anni a seguire. Gli episodi di ipoglicemia e di chetoacidosi con iperglicemia erano meno frequenti, ma molto più impattanti sotto il profilo fisico e mentale.
La tua prima volta con il microinfusore? Che esperienza è stata?
La prima volta risale al primo microinfusore prodotto in Italia nel 1979, il mitico Canè di Torino, dalle dimensioni di un astuccio; andava a due marce ovvero una fissa per un’infusione di una Unità all’ora e l’altra per il pasto che una pressione alla volta immettevi una unità. Nella baionetta del micro alloggiava una siringa di plastica da 40 unità di insulina collegata a un catetere e ago da flebo con alette, e l’ago restava sempre inserito nel sottocute. Dato che tale permanenza mi costava piaghe sottocutanee e non assorbimento in corpo dell’insulina, nonostante avessi provato a mettere l’ago in diverse parti del corpo, per via del dolore e dei predetti problemi dopo sei mesi abbandonai il prototipo. Per poi tornarci trent’anni dopo….
Quando arriva la tua chiave di svolta?
Per la precisione sono state due: nel 1996 mi venne diagnosticata la retinopatia proliferante essudativa, anche se a dire il vero l’avevo già da parecchi anni prima. E tra il 1997 e il 1998 venni sottoposto a ben 32 sedute di laser per evitare il distacco della retina e la cecità. Sempre nel 1996, ripresi a farmi vedere da specialisti endocrinologi, dopo 16 anni di assenza, poiché mi ero francamente stancato di “subire” visite che assomigliavano più a un consulto notarile anziché medico.
Infine, la seconda e più importante svolta avvenne nel 2009 quando, dopo che per diversi anni mi rendevo conto di non avvertire più le ipoglicemie e a seguito di molteplici episodi sincopali, cadute rovinose con ricoveri ospedalieri conseguenti, seppi che era disponibile il primo microinfusore con monitoraggio continuo della glicemia, in grado di arrestare l’erogazione del farmaco in caso di calo del glucosio ematico e lanciare l’allarme. Seppure con qualche intoppo, il Medtronic Veo e modelli successivi mi hanno consentito di gestire al meglio la malattia e non avere quasi più problemi con l’ipoglicemia. Inoltre, con un comfort senza paragoni rispetto al prototipo del 1979.
Ma l’avventura della vita è sempre piena di ostacoli …
Eh si, infatti il diabete non viaggia da solo: nel 2000 fece la comparsa un’altra patologia autoimmune, che accompagna una buota parte di noi diabetici tipo 1, che è l’artrite reumatoide (AR), malattia che lascia il segno visibile sulle articolazioni del corpo e ha effetti anche sui vasi e a livello cerebrovascolare. A causa dell’acuirsi della flogosi (infiammazione) provocata dall’AR nel 2004 ebbi ad esempio un leggero ictus.
Aprire il blog “Il mio diabete” che cosa ha significato per te?
Dopo tredici anni posso senza alcun dubbio affermare che ha aiutato me e chi legge a restare informato, senza eccessi, e con affidabilità accertata sulle fonti d’informazione, circa lo stato del malattia diabetica, la sua assistenza, come si evolve la terapia, la ricerca, soprattutto sul diabete tipo 1 e l’innovazione tecnologica. Comunicare è fondamentale con una malattia cronica, complessa e progressiva come il diabete tipo 1. E ricordo un mio moto: “Il diabete non ammette ignoranza.” Questo vale sia per il diabetico sia per i fornitori di assistenza, medici in primis.
Oggi a che punto sei del tuo cammino?
Anche se le risposte alle domande non finiscono mai, mi rendo conto che il mio percorso volge al termine, e ora il mio impegno è rivolto a lasciare una testimonianza di questo mio cammino a chi continuerà a vivere con e senza la malattia. Se poi ci saranno persone che vorranno raccogliere il testimone sono sempre ben accette. Comunque non sono solo: ho due giovani collaboratrici, con diabete tipo 1 con le quali stiamo lavorando nel presente per un futuro ricco di nuovi progetti. Forse le conoscete, sono: Klau Kostaj e Alessandra Mangatia.
Sappiamo che collabori strettamente con Agd Bologna: quali attività svolgete?
Prendo in prestito un termine canonico: facciamo opera di “evangelizzazione” sia sulla ricerca per la cura del diabete tipo 1 che di educazione sanitaria, supporto alle famiglie con bambini e ragazzi diabetici, e tanta comunicazione diretta e online.
Inoltre, promuoviamo diverse attività filantropiche e di divulgazione sanitaria e scientifica. Ad esempio: gli eventi Diabeteasy e il sostegno alla ricerca per la cura del diabete tipo 1 con le staminali, frutto della collaborazione tra l’Università di Bologna e il Diabetes Research Institute di Miami diretto dal professor Camillo Ricordi, dove lavora anche il dr.
Per maggiori informazioni, potete consultare il sito https://www.agdbologna.com
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Ricerca DT1: terapia cellulare e medicina rigenerativa »
In collegamento da Miami, il Dr. Giacomo Lanzoni, del Diabetes Research Institute
durante un evento organizzato da Il Mio Diabete e Agd Bologna
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